”Ormai sono fifty-fifty, metà italiano e metà polacco. Ho parlato con l’allenatore, con Coach Messina, e mi ha spiegato il mio ruolo, cosa dovrei aspettarmi, di cosa aveva bisogno, ha detto le cose che speravo dicesse, che mi sono piaciute soprattutto sotto il profilo umano”

Aveva 15 anni Jakub Wojciechowski quando gli proposero di trasferirsi a Treviso.

Era un bambino con un grande fisico, statura, cui piaceva il basket. Kuba è di Łódź, una città di 700.000 abitanti circa che era stata prosciugata durante la Seconda Guerra Mondiale quando la popolazione risultò dimezzata. E’ proprio a Łódź che è cominciata questa storia. “Sono venuto a Treviso senza preoccuparmi delle conseguenze di quella scelta. Per me – racconta – si trattava di cambiare maglia, avere compagni diversi, ma giocare comunque a basket in un palasport, come avevo sempre fatto.

Al resto, la lingua, le diversità culturali, o le difficoltà di arrivare in un paese straniero giovanissimo, senza i genitori o familiari al seguito, non pensavo proprio. Ma questa esperienza mi ha aiutato a crescere, anche velocemente, e oggi sono un prodotto anche di quella scelta. Ero stato segnalato a Treviso, vennero a vedermi a qualche torneo giovanile: nacque tutto così”.

L’allenatore della Benetton in quel momento era proprio Ettore Messina, alla sua terza stagione a Treviso. Kuba diventò a tutti gli effetti un giocatore della Benetton e siccome ha trascorso più di quattro anni nel suo settore giovanile, è diventato anche italiano di formazione cestistica. “Ormai sono fifty-fifty, metà italiano e metà polacco”, dice sorridendo. Da quel momento ha giocato in numerose squadre italiane, incluse Cremona, Capo d’Orlando e Brindisi, le tappe migliori probabilmente.

“Soprattutto Capo d’Orlando e Brindisi, dove il sistema di gioco era ideale, a me piace dove si muove la palla e si cerca il compagno libero, e la fiducia dell’allenatore mi hanno permesso di esprimermi al meglio, poi avevo anche compagni esperti che mi hanno aiutato perché a basket non si gioca mai da soli”, racconta. All’Orlandina ebbe 8.9 punti e 6.1 rimbalzi di media (10.2 e 4.3 rimbalzi in BCL); l’anno successivo a Brindisi aveva 5.3 punti e 3.1 rimbalzi ma in appena 12 minuti, dalla panchina.

Quest’anno era a Biella in A2 quando è arrivata la chiamata di Milano. “Ma non ho avuto il tempo, diciamo così, di festeggiare l’arrivo all’Olimpia. Ho parlato con l’allenatore, con Coach Messina, e mi ha spiegato il mio ruolo, cosa dovrei aspettarmi, di cosa aveva bisogno, ha detto le cose che speravo dicesse, che mi sono piaciute soprattutto sotto il profilo umano. Non ho aspettative, sono concentrato sul fare quello che mi verrà chiesto, aiutare la squadra, i miei compagni e lavorare. Quello che riuscirò a guadagnarmi sarà quello che mi sarò meritato”, dice.

E’ un 2.13 che sa tirare da fuori, ha circa il 34% da tre in carriera. Sul piano tecnico si descrive così: “Sono un centro, ma ho una mano delicata, so tirare da fuori, sono mobile e so muovere la palla, mi reputo un giocatore di ruolo, che prende le decisioni giuste per la squadra. Ecco credo che queste siano le mie caratteristiche più importanti”, dice.

Ha scelto di giocare con il numero 81, perché non poteva indossare il 18 ritirato dall’Olimpia in onore di Arthur Kenney, “così ho invertito le cifre”. “Quando arrivai a Treviso c’era un giocatore americano che mi piaceva molto, Marcus Goree, lo imitavo, cercavo di imparare da lui e lui mi ha insegnato molto. Lui indossava il 18 e allora ho voluto anche io quel numero, un omaggio al mio giocatore preferito”.